Le regole invisibili
Cosa caratterizza esattamente un articolo di giornale?
E, ancora più difficile, cosa ci si aspetta da un allievo che sceglie di svolgere la prima prova dell’esame di stato in forma di «articolo di giornale»?
Dal 1998-99 insegnanti, professori universitari, docenti nei corsi per insegnanti, ecc. (cioè, più o meno chiunque tranne i giornalisti veri e propri) hanno sviscerato l’argomento da ogni punto di vista, cercando di interpretare correttamente le fatidiche indicazioni ministeriali:
“Sviluppa l’argomento scelto o in forma di «saggio breve» o di «articolo di giornale», utilizzando i documenti e i dati che lo corredano.[…]
Se scegli la forma dell’«articolo di giornale», Individua nei documenti e nei dati forniti uno o più elementi che ti sembrano rilevanti e costruisci su di essi il tuo ‘pezzo’. Da’ all’articolo un titolo appropriato ed indica il tipo di giornale sul quale ne ipotizzi la pubblicazione (quotidiano, rivista divulgativa, giornale scolastico, altro). Per attualizzare l’argomento, puoi riferirti a circostanze immaginarie o reali (mostre, anniversari, convegni o eventi di rilievo).”
Chiaramente il testo si presta a molteplici interpretazioni, ma almeno due cose sembravano acquisite: “uno o più elementi” autorizza a utilizzare anche solo uno dei documenti forniti e “puoi riferirti a circostanze immaginarie o reali” significa che è lecito inventarsi la notizia di cronaca di sana pianta (esercizio interessante, formativo e tutt’altro che semplice per gli allievi; lettura una volta tanto divertente per gli insegnanti).
Troppo facile che ci fossero due punti condivisi: nel 2009 le indicazioni sono improvvisamente cambiate, probabilmente nella convinzione (errata) di facilitare le cose con una consegna più sintetica: “Se scegli la forma dell’«articolo di giornale», indica il titolo dell’articolo e il tipo di giornale sul quale pensi che l’articolo debba essere pubblicato.” Niente autorizzazione esplicita a utilizzare un solo documento e a inventare la notizia. Questo significa che le due cose non sono più possibili o è lecito fare riferimento alla tradizione orale che le consente? Da otto anni vengono esercitate le più raffinate capacità esegetiche nel vano tentativo di risolvere questo dubbio. C’è un’opinione di minoranza che sostiene che “utilizzando i documenti” presupponga l’obbligo di citarli tutti, ma la maggioranza è per un’interpretazione più flessibile. Non mi risultava che esistessero esegesi che vietavano la notizia inventata, finché la scorsa settimana mi sono giunte voci di allievi della mia scuola penalizzati sulla base di questo supposto divieto. E questo nonostante il dipartimento di italiano avesse redatto all’unanimità un testo per i commissari esterni che esplicitava la nostra interpretazione condivisa delle indicazioni ministeriali.
Rinuncio alla tentazione di far paragoni impropri con l’esegesi biblica; tuttavia anche senza pretendere di applicare alla scuola la differenza tra “midrash halakhah” (interpretazione che ha valore di legge) e “midrash haggadah” (interpretazione libera che non ha valore di legge) mi pare comunque scandaloso che gli allievi perdano punti (cosa che può significare mancato accesso a determinati corsi o a borse di studio) sulla base di regole invisibili stabilite da commissari esterni che si fondano sulle proprie esegesi personali delle indicazioni ministeriali. Mi domando quale potrebbe essere il valore educativo di tutto questo, a meno che non si voglia insegnare che la vita è ingiusta e che bisogna rassegnarsi.
Inoltre è un gran peccato che una delle novità più simpatiche e interessanti dell’esame di stato nato nel 1999 (la possibilità di svolgere la prova di italiano in forma di articolo di giornale anche inventando una notizia) – l’unica che permetteva agli studenti di esercitare la loro fantasia e la loro creatività – sia stata di fatto distrutta da consegne ambigue e da interpretazioni gratuitamente restrittive.
Anna Segre, insegnante
(21 luglio 2017)