Il senso della vita
Tra le più drammatiche testimonianze dell’occupazione di Praga da parte delle truppe dei Paesi del Patto di Varsavia (20–21 agosto 1968, la Romania non partecipò) colpiscono quelle di coloro che 30 anni prima avevano conosciuto l’occupazione da parte del regime nazionalsocialista; il tedesco era tornato a Praga e i soldati tedeschi urlavano in tedesco contro la popolazione ceca come ai tempi del Protettorato.
È pur vero che si trattava dei militari tedeschi della Germania Orientale (Deutsche Demokratische Republik), Paese a regime comunista; ma la lingua non tradisce, era la stessa degli ultimi occupanti, bypassava epoche differenti e mutati contesti geopolitici divenendo traumaticamente un tutt’uno con il defunto Reich nelle anime ferite di Praga.
La lingua è l’elemento musicale innato dell’uomo, veicolo per eccellenza di civiltà, pensiero e arte; nei Lager, cantare in ceco – ma anche in ebraico, yiddish, francese, italiano – dinanzi al tedesco equivaleva a difendere la propria nazione e identità culturale.
A Westerbork come a Stutthof, Buchenwald e Theresienstadt il cabaret e l’operetta si eseguivano prevalentemente in lingua tedesca e sovente il primo spettatore plaudente era l’ufficiale tedesco; la canzone per eccellenza era quella in lingua italiana, i militari del Reich ne erano letteralmente ammaliati mentre le truppe sovietiche, durante la disastrosa spedizione dell’ARMIR, fraternizzavano con i loro prigionieri italiani grazie alla celebri canzoni italiane di Cesare Bixio.
Nelle partiture musicali dei Lager (dal pezzo vocale a brani corali e sinfonico–corali) la madrelingua poteva essere foriera di messaggi criptati o incitazioni a ribellioni; è successo a Neuengamme con i pezzi corali in lingua ceca di Emil FrantišekBurian, a Theresienstadt nel testo in lingua ceca dell’operina Brundibár di Hans Krása, a Wülzburg con il testo corale della VIII. Symphonie di Ervin Schulhoff, a Moorburg con i testi dell’operina Die Glückliche13, a Sachsenhausen nei Lieder di Alexander Kulisiewicz, negli inni in lingua tedesca del Campo rumeno di Târgu Jiu e altro ancora.
Ma anche Olivier Messiaen (nella foto) nel suo monumentale Quatuor pour la fin du temps per violino, clarinetto, violoncello e pianoforte scritto nel 1940–1941 presso lo Stalag VIIA Görlitz, stese in lingua francese testi di accompagnamento alla partitura fortemente evocativi e apocalittici; nel medesimo titolo dell’opera è citata tanto la fine dei tempi musicali in senso metrico (a favore di una più estesa modalità e aleatorietà) quanto la fine del mondo così come lo abbiamo conosciuto sino ad allora.
Gradualmente l’autorità tedesca proibì l’uso delle lingue madri nei Campi a favore della lingua tedesca – più controllabile – e fu così che i musicisti deportati crearono veri e propri capolavori della letteratura musicale tedesca (ma anche Schlager, parodie, canti triviali e inni di camerata per non farsi mancare nulla) cantando in tedesco in faccia al soldato tedesco.
“Cantavamo, suonavamo, battevamo le mani a ritmo di operetta; noi conoscevamo il senso della vita”, scrisse un sopravvissuto; e la vita va sempre offerta su un piatto d’argento sotto qualsiasi latitudine.
Meglio ancora se accompagnata a suon di musica.
Francesco Lotoro
(3 gennaio 2018)