Il buco nero
C’è chi ritiene che ci si debba impegnare per difendere la «razza bianca» dalla sua contrazione demografica e, in estrema ipotesi, dalla sua possibile estinzione a venire. Peraltro, in una sorta di involontaria par condicio, già alcuni mesi fa un’esponente di un partito opposto a quello di colui che nei giorni scorsi si era richiamato alla tutela della «razza», aveva fatto incauto ricorso a concetti e parole simili riferendosi, in questo caso, alla «razza italica». Peccati veniali, si dirà, quasi a punta di lingua poiché «voci dal sen fuggite». Se non fosse per il fatto che i lapsus rivelano qualcosa di tanto rimosso quanto di profondo e persistente. Un sentire comune che, proprio per la sua natura di inaccettabilità, permane consegnato alle pieghe del discorso, salvo poi riemergere in misura tanto repentina quanto era stata la modalità della sua censura pubblica. Un tale slittamento di parole si accompagna oramai da tempo al rigenerarsi del campo della destra radicale. Va da sé che non ci sia alcuna reciprocità immediata tra chi può scivolare, ancorché clamorosamente, su alcune bucce di banana e quanti, invece, quelle bucce le hanno volutamente distribuite sul percorso altrui. Rimane però il fatto che vi è una nuova disposizione d’animo nei confronti di alcuni temi e motivi che arrivano dall’arsenale del neofascismo, essendo poi acquisiti nel linguaggio quotidiano, di senso comune. Non si tratta dell’accettazione integrale del suo dettato politico ma di una proclività su alcune sensibilità di fondo, che fuoriescono dall’altrimenti stretto recinto in cui si sono formate e rigenerate, per diventare parte del dire e del pensare diffuso. Per capire cosa sta succedendo bisogna quindi interrogarsi sulle trasformazioni che hanno interessato la destra radicale in questi ultimi tre decenni. Non perché queste ultime abbiano influenzato per forza e capacità propria la comunicazione politica. Semmai vale l’inverso, poiché è il campo della politica, anche di quella parlamentare, che sempre più spesso ha assimilato temi e slogan che rimandano ad una parte dell’arsenale tipico di un certo radicalismo: la nazione come dimensione identitaria, la paura dello «straniero», l’angoscia da «invasione» e spossessamento, l’avversione vero le élite dirigenti e la cosiddetta «partitocrazia», la contrapposizione tra «territori» e globalizzazione, il richiamo alla «sicurezza» insieme ad altro ancora. La specificità di questi temi, e quindi la loro adozione, non fa di chi ricorre ad essi un «fascista». Così come i temi medesimi, considerati in sé, non hanno necessariamente nulla di immediatamente denotativo. Il ricorso gratuito e inflazionato all’espressione «fascista» come ad una sorta di epiteto verso ciò e coloro che non piacciono non serve a nulla. Anzi, semmai aumenta la confusione. Quel che conta è piuttosto il loro prestarsi ad concatenazione logica. È dallo stabilirsi di connessioni tra argomenti diversi, infatti, che si genera un pensare logico che diventa poi una formulazione ideologica. Un fatto che rivela quanto ciò che residua del fascismo storico, quello mussoliniano, e del neofascismo, incidano nella formazione dell’agenda politica delle priorità, sia pure per immagini e per ricorso all’immaginazione che non per una proposta politica organica che è – invece – del tutto assente. Si tratta di una forma indiretta di egemonia culturale, più che politica, dove una galassia di argomenti e di soggetti, di motivi e di interlocutori hanno riconquistato uno spazio che fino a non molti anni fa sembrava invece essergli negato una volta per sempre. Riflettere quindi su quale sia la dimensione del «fascismo di ritorno», non fermandosi solo alla superficie delle sue manifestazioni, sospese tra aggressività e folclore, ma entrando nel merito, può aiutare a capire meglio. Più che indugiare, se non indulgere oziosamente, nella ricerca di un neofascismo che si presenterebbe, ai nostri ed altrui occhi, come una sorta di movimento eterno ed immodificabile, è semmai prioritario l’interrogarsi sulla natura di una galassia che è nera nel suo cuore battente, ovvero nel suo nocciolo ideologico, ma grigia nelle innumerevoli manifestazioni che la connotano. Il neofascismo ha infatti assunto caratteri spuri rispetto al suo modello originario, derivatogli dal lascito dei regimi politici europei degli anni Trenta e Quaranta, e dei suoi epigoni – come nel caso greco o in quello cileno, per rimanere su due esempi tanto peculiari quanto tra di loro molto differenti. Per certi aspetti si è modernizzato. Se ci riferiamo, in senso lato, alla «destra radicale» (intendendo con essa una diffusa piattaforma europea, se non qualcosa di più, tale poiché composta da una pluralità di soggetti politici ma anche culturali e, con essi, ad un insieme di pensieri, di stili di vita e di relazioni, quindi di ambienti sociali), va da sé che l’accezione di «neofascismo» si amplia nei suoi contenuti ma ci aiuta anche a mettere a fuoco l’ampiezza – e con essa la persistente pericolosità – dell’ombra della galassia nera. Il primo punto da cui partire, quindi è la natura al medesimo tempo melliflua e camaleontica del fenomeno in sé: mellifluità che deriva dalla difficoltà di circoscriverlo, poiché il neofascismo, oggi, non indossa necessariamente una camicia nera (anche se continua a pensare come se questa fosse il suo abito prediletto) e neanche il doppiopetto ma, piuttosto, la veste arrabbiata e militante dei “descamisados”; camaleontismo nella misura in cui il fascismo, come calco culturale e antropologico profondo, non è mai venuto meno ma si è sempre confrontato con la trasformazione delle società. Non lo si liquida, pertanto, come una specie di residuo del passato, una sorta di ghetto dal quale, ogni tanto, arrivano strepitii di intolleranza. Pur con tutte le cautele del caso sarebbe quindi meglio parlare di un neopopulismo fascistizzante. Che il termine «populismo» sia di per sé tanto abusato quanto insoddisfacente, non necessita il ripeterlo. Mentre è invece interessante il fatto che il neofascismo, per cercare di intercettare attenzioni e consensi, superando il complesso della marginalità politica che invece da sempre lo connota, possa riconoscersi e quindi attivarsi dentro un più ampio e diffuso trend populista. Quest’ultimo si compone e si rafforza soprattutto di certi atteggiamenti diffusi nella pubblica opinione e tra gli elettori, come la critica delle élite e della politica tout court, l’idea che il «popolo» conservi in sé una verità incontrovertibile e insindacabile, la ricerca esasperata della disintermediazione (ossia il rifiuto aprioristico di qualsiasi forma di rappresentanza) cercando di volgerli a proprio favore. Si tratta di uno sfondo, ossia di una cornice, dentro la quale ritagliarsi uno spazio di legittimazione. La galassia nera, quindi, non è in tutto e per tutto populista ma ne raccoglie stimoli e suggestioni, adattandole di volta in volta alle proprie necessità. Soprattutto, ne ottiene una nuova, a tratti insperata, legittimazione di ritorno. Poiché i populismi, questione sulla quale torneremo, lavorano per una “soluzione a destra” delle crisi di mutamento che stiamo vivendo. Posta questa prima premessa, va poi riconosciuto che si ha a che fare, oggi più che mai, con una destra radicale che è passata da posizioni di mera restaurazione o conservazione (ovvero, come si sarebbe detto un tempo, di collocazione «reazionaria») a soggetti in costante movimento, che ambiscono a mobilitare una parte delle collettività non solo sul piano politico ma anche e soprattutto sociale. Quest’area politica registra, a modo suo, la crisi della “vecchia” politica e della rappresentanza democratica in quanto tali, ossia la loro non essenzialità rispetto a quei processi decisionali che oggi contano più che mai nel determinare prosperità o declino delle comunità umane. Così facendo, si rivolge a quelle ampie parti di società che si sentono abbandonate a se stesse, dicendo loro: “sarò io a rappresentarvi dinanzi all’indifferenza delle élite traditrici e defezioniste”. Non è un caso se la polemica “antiborghese” (i ricchi parassiti, che si ingrassano ai danni del popolo, anzi, della «nazione», la quale sarebbe la verace depositaria interclassista dei più autentici valori della «stirpe») abbia da tempo ripreso pieno vigore nel neofascismo. Il quale, da sostegno per «maggioranze silenziose» iperconservatrici, espressione del comune sentire di una parte del ceto medio dei decenni trascorsi, ha ora invece di nuovo rivestito i panni del plebeismo. Di fatto, l’avversione nei confronti dello “spirito borghese” può benissimo adeguarsi alla più totale assenza di una qualche forma di critica, anche solo superficiale, di quell’insieme di relazioni sociali ed economiche che chiamiamo con il nome di capitalismo. La vera linea spartiacque tra una sinistra raziocinante ed una destra radicalizzante sta esattamente in questa differenza inconciliabile: mentre la prima dovrebbe continuare a chiedersi quale sia la natura del regime di generazione e redistribuzione delle ricchezze socialmente prodotte, rivendicandone una riforma in senso egualitario, la seconda simula una polemica di superficie non contro un circuito di forze e di relazioni ma nei confronti di singoli obiettivi, per accreditarsi poi come soggetto politico, salvo poi rivelarsi all’atto pratico, il più delle volte, subalterna al complesso degli interessi economici corporati già esistenti. Qual è, allora, il nucleo storico e ideologico delle destre radicali, se vogliamo rifarci al presente? Abbiamo alcune aree critiche molto rilevanti. Intanto c’è la Francia. D’abitudine si pensa, dopo la Shoah, alla Germania stessa come centro dei peggiori abomini. In realtà, il vero nucleo fondante del pensiero di una destra radicale rimane – nel passato come oggi – la realtà dell’esperienza francese, a partire dai fenomeni controrivoluzionari, dal 1789 in poi. Un secondo dato è quello legato alle incerte democrazie presenti nell’Est europeo, dove la transizione dai regimi autoritari, monocratici e liberticidi di «socialismo reale» a qualcosa d’altro di non troppo ben definito, non ha mantenuto le premesse e le promesse che in qualche misura si erano in un primo momento manifestate. Il 1989 è lontano, ed i ritorni sono estremamente problematici, tanto più in un’area geopolitica ampia, da nord a sud e da est ad ovest, dove gli elementi di autoritarismo, le cosiddette «democrature», tra un Putin e, più a meridione, un Erdogan, vanno rafforzandosi come modello di gestione globale delle società. Un terzo fattore importante, che è al medesimo tempo un elemento ideologico, culturale ma anche antropologico, è il fatto che se si ragiona in termini continentali europei c’è uno specifico modello di riferimento tra queste destre, sia pure preservata la prerogativa della specificità delle loro esperienze nazionali: è il modello dell’unificazione razziale nazista, quello che in termini, anche molto propagandistici, veniva chiamato il «Nuovo Ordine Europeo». La Germania nazista era portatrice non soltanto di un’idea di superiorità assoluta della propria identità razziale ma anche di un ambizioso progetto di riorganizzazione socio-demografica nell’Europa. A quel progetto aderirono non pochi europei. Parteciparono anche gli italiani, almeno una parte d’essi, in particolar modo coloro che stavano nella Repubblica sociale italiana. Tra parentesi, è bene ricordare che il lascito della RSI è quello che continua ad essere più pregnante e sincero per il neofascismo, ovvero il suo vero cuore pulsante. Era e rimane l’idea di un’«altra Europa» (pienamente rappresentata dal collaborazionismo tra il 1940 e il 1945), rispetto a quella che invece si è realizzata nei fatti, dal secondo dopoguerra in poi. Dinanzi ad un’Unione europea di «tecnocrati», all’«eurocrazia», all’Europa distante, all’Europa che «disintegra le identità nazionali», sotto le quali si celerebbero invece le “autentiche” appartenenze etno-razziali, si contrappone, nel pensare radicale, un’Europa affratellata da vincoli di comunanza biogenetica. Così dicono i neofascisti e, in immediato riflesso, “sovranisti” e “identitaristi”. Anche se questi ultimi spesso ragliano e scimmiottano il discorso, assai più lineare, dei primi, nascondendolo sotto una coltre di parole vuote. Poiché hanno paura di dire quello che in fondo pensano.
Claudio Vercelli
(prima parte)
(21 gennaio 2018)