…Polonia

Penso che sia necessario riflettere sulle critiche avanzate da più parti al governo polacco e al parlamento in relazione alla legge che dovrebbe prevedere pene fino a tre anni per chi utilizza la denominazione “campi di sterminio polacchi” (Polish death camps). L’ondata di sdegno mediatico, politico e diplomatico ha investito le coscienze di molti e ha prodotto un’eco fortissima. Allarme democratico, estrema preoccupazione per il futuro della libertà di ricerca, preoccupazione per la deriva nazionalista e antieuropeista polacca. Tutto molto comprensibile, ma anche in parte fuorviante. La legge in questione infatti non dice quel che le si vuole far dire, e risponde a dinamiche diverse. Non è una legge nuova, ma la modifica di una legge già in vigore relativa ad altri temi. Si tratta di un testo che dice sostanzialmente due cose: a) non si può accettare che venga attribuita una responsabilità alla Polonia per i crimini commessi in territorio polacco da altri (nello specifico i nazisti e i bolscevichi); b) la legge persegue il reato con pene fino a tre anni di carcere, escludendo però esplicitamente chi affermi tesi contrarie al suo dettato (cioè dica che i polacchi sono stati responsabili delle stragi naziste) “nell’ambito di attività artistiche o accademiche”. In sostanza se c’è uno spettacolo teatrale o un saggio di ricerca storica in cui compare (involontariamente o meno) la dizione “campi di sterminio polacchi”, questa azione non è perseguibile per legge.
Sul punto a) si era già espressa in forma molto esplicita l’IHRA nella plenaria di Ginevra a giugno 2017, votando all’unanimità un documento che dichiarava sbagliata l’espressione “campi di sterminio polacchi”. Il punto b) sembra fare giustizia dei timori sull’ipotizzato bavaglio alla libertà di ricerca.
Detto questo, qualche problema sembra persistere. Innanzitutto nella dinamica politica. Era più di un anno che questo provvedimento aleggiava nell’aria, e le critiche internazionali avanzate nei confronti del governo polacco non hanno prodotto la semplice e concreta reazione che ci si attendeva, cioè una spiegazione sensata delle ragioni che spingevano alla sua approvazione. Il governo polacco ha invece spinto sull’acceleratore dell’isolazionismo nazionalista, criticando chi voleva mettere a rischio “la reputazione (si è sentita anche la parola onore) della Repubblica di Polonia e della Nazione Polacca” (frase più volte ripetuta nella legge). È sorprendente l’idea che esista una reputazione di una nazione da difendere di fronte a crimini di guerra eseguiti da singoli civili o da gruppi, che a volte erano polacchi ma che non per questo rappresentavano la “Nazione Polacca”. Pensare di colpire con una legge chi mette in evidenza il fatto che sono state condotte azioni criminali (magari istigate dai nazisti, o dai comunisti, o da chicchessia) è piuttosto sorprendente, anomalo e imbarazzante. Ci sono naturalmente ragioni storiche che spiegano questa deriva. Il partito di governo in Polonia oggi esprime posizioni di forte arroccamento nazionale, cercando di affermare un’idea di Polonia totalmente vittima e martire delle vicende legate al secondo conflitto mondiale. Il che in parte è ragionevole, se si pensa alla doppia invasione sovietica e nazista, ai massacri di centinaia di migliaia di civili (assassinati prima che si iniziassero a sterminare gli ebrei). Ma la Polonia, come tutte le altre nazioni coinvolte nella guerra, non è portatrice di una innocenza assoluta e salvifica. I suoi cittadini, come tutti i cittadini delle altre compagini nazionali, sono stati partecipi di dinamiche diverse e complicate, mai lineari: oppositori e resistenti, collaborazionisti, indifferenti, profittatori, eroi… in poche parole, esseri umani. Come non ha senso (ed è francamente offensivo) dire che tutti i polacchi sono (stati) antisemiti, non ha neppure senso affermare l’assurdità che in Polonia non c’è mai stato antisemitismo.
In questo senso, le leggi non aiutano a fare giustizia della verità storica, specie se sono caricate di espressioni ideologiche apodittiche come quelle relative alla difesa della reputazione di un’intera nazione. Chi commette crimini contro l’umanità non lo fa perché sente di rappresentare una nazione (polacca, italiana o tedesca che sia), ma lo fa appunto perché è un criminale e un assassino. Il governo polacco è in questo momento in buona compagnia assieme ad altri nell’ossessiva affermazione che la nazione che rappresenta è stata un modello di comportamento negli anni della guerra (con particolare riferimento allo sterminio degli ebrei, ma non solo). Le cose sono invece molto più problematiche, vanno differenziate a seconda delle circostanze e dei luoghi, dei momenti della guerra e delle singole azioni. Insomma si tratta di una realtà che merita di essere studiata in forma critica, sulla base di evidenze storiche, documenti e testimonianze. Ridurla a schermaglie politico diplomatiche dal sapore retrò di un nazionalismo redivivo rischia di far girare indietro le lancette del tempo e della storia, riconducendo l’Europa a momenti che sembravano passati e che sono oggettivamente pericolosi.

Gadi Luzzatto Voghera, Direttore Fondazione CDEC