Piccoli cittadini
Mi è recentemente capitato di partecipare ad un incontro in biblioteca con due classi quarte di una scuola primaria, in una zona multietnica di periferia. Come spesso mi trovo a pensare, l’apprendimento non nozionistico ma attivo passa attraverso figure di riferimento portanti, insegnanti che vogliono e sanno veicolare messaggi di analisi e di partecipazione.
Così, ci sono bambini di nove anni che ti spiegano il termine ‘resilienza’ – ci sono arrivati da soli, aggiunge la maestra di fronte allo stupore dei convenuti, partendo dall’osservazione delle piante in ambienti sfavorevoli. Ci sono bambini che riflettono sulle sfumature lessicali dei termini olocausto, Shoah e genocidio. Ci sono anche bambini che trovano le analogie concettuali tra Shoah e pulizia etnica nella ex Jugoslavia degli anni Novanta. Un ragazzino dichiara orgogliosamente che lui lo sa, suo padre da lì è dovuto fuggire, da dove non ricorda esattamente ma se lo farà dire perché così conoscerà una parte della propria storia familiare e potrà tramandarne a sua volta memoria.
Una bambina azzarda un’interpretazione del viaggio di deportazione verso i campi di sterminio come ideologicamente votata a disumanizzare le persone, che in quel modo si sarebbero sentite ‘di meno degli esseri umani’. Un altro aggiunge, e infatti poi c’era il numero tatuato, quindi non eri più considerato una persona.
Colgono la contraddizione beffarda tra i fatti e gli slogan (‘il lavoro rende liberi’, ma quello non era lavoro, e ancora, ‘un pidocchio, la tua morte’, quando non era proprio possibile restare puliti). Ragionano sulla vacuità di giorni commemorativi relegati ad un rapido momento di vuota retorica, quando se si volesse sarebbe possibile parlare e lavorare sempre su certi argomenti. Loro lo fanno da anni, in seconda elementare hanno persino imparato Gam gam, e conoscono anche il significato perché il loro maestro ha cercato la traduzione. Anzi, per favore maestro, la possiamo cantare? Prima di lasciare questo luogo così importante, dove qualcuno prova a portare anche i genitori, perché questo è un posto dove si possono fare tante cose e soprattutto è un ambiente calmo, dove se si è tristi si può venire a stare un po’ con se stessi e pensare.
Un abbraccio, un altro ancora, davvero non possiamo rientrare a scuola insieme, ma chissà forse ci rivedremo il prossimo anno, intanto nel frattempo continueranno a discutere di razzismo ed indifferenza – che, argomenta un bambino, è ancora più pericolosa di chi volontariamente fa del male ma sarebbe isolato se non ci fossero tutti quelli che glielo permettono o fanno finta di non vedere. In quinta, spiega il docente, potranno affrontare un percorso un po’ più elaborato su inclusione e cittadinanza. Con buona pace di tutti quegli insegnanti che invece non si attivano per preparare un lavoro sul giorno della memoria (non è nel programma che stanno svolgendo, dicono) e figuriamoci per parlare di temi politicamente scottanti, mentre loro devono insegnare e non fare politica. Insegnare cosa, è tutto da vedere.
Sara Valentina Di Palma
(21 febbraio 2019)