L’intervista a Galli della Loggia “Scuola malata di conformismo”
“C’è qualcuno che, punto sul vivo, è arrivato a sostenere che sarei un reazionario. Mi chiedo: proporre che il riassunto sia protagonista in classe è reazionario, non farlo invece è progressista? Una tesi piuttosto curiosa, mi pare…”. Storico, editorialista, tra i pochi intellettuali in grado di incidere davvero nella società italiana, Ernesto Galli della Loggia ha scritto un libro provocatorio e appassionato, L’aula vuota, pubblicato da Marsilio. Il suo atto d’accusa è senza sconti: è nella scuola, nel modo sciagurato in cui è stata gestita negli ultimi decenni all’insegna di retorica, celebrazione di sé e scomparsa del merito, una crisi che fa risalire agli sconvolgimenti degli Anni Sessanta, che hanno origine i fallimenti del Paese e la sua deriva verso un sempre più accentuata degradazione culturale che ha la sua massima espressione in una classe dirigente priva di profondità e visione. Galli della Loggia ricorda la nonna Nerina, insegnante nei poverissimi Quartieri Spagnoli di Napoli, che spese tutta se stessa per offrire un futuro diverso ai suoi studenti.
“Lei e tante come lei hanno avuto il merito di dare un impulso decisivo all’Italia, facendo di un Paese povero un attore di primo piano sulla scena mondiale. Basti pensare a quanti, nati in contesti umili, hanno saputo imporsi ai vertici dello Stato grazie a studi, preparazione, disciplina. All’epoca il suo era un profilo abbastanza comune. Oggi andrebbe considerata una sorta di eroina. È reazionario, mi chiedo, avere nostalgia di tutto ciò?”.
Il libro è però anche un profondo atto d’amore. Scrive infatti della Loggia: “Ai professori che ho avuto la fortuna d’incontrare negli anni delle medie, come del liceo, devo qualcosa che non è facile spiegare, ma che rappresenta in realtà il massimo acquisto che l’insegnamento, qualsiasi insegnamento, possa sperare di trasmettere. Vale a dire la consapevolezza che il sapere non rappresenta un che d’inerte, lontano e altro da noi, ma, all’opposto, è qualcosa che ci riguarda, che ci forma ed è destinato a interpellarci direttamente e continuamente”.
La consapevolezza, sottolinea l’autore, “che la cultura alla fine significa semplicemente la possibilità per ognuno di noi di uscire dalla propria particolarità e di mettersi in relazione con il mondo passato e presente”.
La sua analisi è spietata. Davvero nulla da salvare di questi ultimi 50 anni?
Mi pare che sia in corso un grande ripensamento sui fallimenti di questa stagione, almeno da parte degli insegnanti. Lo stesso però non si può dire della tecnostruttura, che a prescindere dal colore dei diversi governi succedutisi al potere in Italia è sempre stata immune a ogni forma di autocritica e revisione delle scelte precedentemente intraprese. Al ministero vediamo da tempo alternarsi figure che niente sanno di scuola e che in genere si fanno consigliare molto male. Mi rendo conto che per un ministro è difficile mettersi contro il proprio ministero. Ma è da queste iniziative, dal fatto cioè se vengano prese o meno, che si valuta lo spessore di una persona.
Tra le figure che più mette in discussione c’è Don Milani. Cosa c’è che non funziona nella sua impostazione di scuola?
L’istanza di cui è stato portatore, nemica del merito e basata sull’idea che tutti debbano essere promossi senza una reale valutazione delle loro competenze. Niente di più deleterio. Questa istanza egualitaria purtroppo è passata, per fortuna non i perni della sua rivoluzione culturale. Almeno questi, come ad esempio la proposta di mettere al bando i classici, ci sono stati risparmiati.
Perché allora va così di moda celebrarlo?
Perché questo Paese è fatto così, si nutre da sempre di mitologie e feticci che sfuggono al controllo. Parliamo in questo caso di una sorta di maoista cristiano che voleva fare la rivoluzione culturale cambiando la cultura. Un nemico della cultura, ma che a sua volta era un fine intellettuale. Ma in questo non c’è nulla di strano. Sono abbastanza ricorrenti, nella Storia, figure di questo tipo. Oggi comunque Don Milani è una specie di santino. Non credo ne sarebbe felice.
Nel libro lei accusa la scuola di conformismo intellettuale.
Sì, è una malattia di cui è vittima da tempo. E appena pochi giorni dopo l’uscita de L’aula vuota, con tracce della maturità segnate da una sconfortante mancanza di coraggio, è arrivata una ulteriore conferma. Un elogio delle buone intenzioni, dal coraggio di Bartali sotto il nazifascismo alla lotta alla mafia, che è proprio il contrario di quello che, secondo me, dovrebbe essere il momento conclusivo di un percorso scolastico. Conformismo, appiattimento su temi banali e su frasi fatte, invece di sano stimolo alla riflessione, all’elaborazione, alla messa in discussione. È come se si avesse paura di indicare agli studenti un percorso di libertà e autonomia.
C’è una via di uscita a tutto ciò?
Non saprei dirle. Gli storici in genere si occupano del passato, non del futuro. Certamente uscire da questo grande autoinganno generale, dalla convinzione di aver fatto cose positive che positive non sono, sarebbe cosa buona. Ma in questa società malata di retorica non è semplice.
Gli intellettuali possono avere ancora un ruolo?
Molto scarso, specie se si è un po’ fuori dal mainstream come il sottoscritto. In questo curioso Paese non c’è nessun amore per le opinioni dissenzienti, si ama discutere solo con chi ci dà ragione. Questa è una delle ragioni per cui, almeno in Italia, gli intellettuali hanno poco credito e non riscuotono alcun interesse. Non è così ovunque. Penso alla Francia, ad esempio, dove la riforma della scuola è stata accompagnata da un vastissimo dibattito.
L’aula vuota parla principalmente di scuola. Ma nei suoi editoriali sul Corriere sono molti i temi di cui continua a occuparsi. Si ha la sensazione che siano opinioni piuttosto lette e dibattute. Non è così?
Sulla carta sì, però nei fatti è tutto da vedere. Ci sono un sacco di temi, a me cari e su cui cerco di proporre spunti di riflessione un po’ fuori dal coro, su cui questo Paese non si ferma a pensare, su cui non discute. Penso all’immigrazione, un argomento in merito al quale pare davvero arduo svolgere ragionamenti analitici che vadano oltre i due schieramenti del sì e del no assoluto.
La Memoria invece come la vede?
La mia posizione è chiara: io sono per la Storia contro la Memoria. Le giornate della Memoria, il racconto del Testimone, non lasciano nulla ai nostri giovani. Li vedo piuttosto impermeabili agli stimoli che si vorrebbero loro trasmettere. Le iniziative attorno al 27 gennaio sono ormai grandi occasioni di celebrazione in cui la società italiana si guarda allo specchio e si rassicura dicendosi ‘Quanto sono buona’. Se per un giovanissimo è cosa saggia leggere il Diario di Anna Frank, negli anni del liceo secondo me al centro dovrebbe tornare la Storia. Meglio di gran lunga un buon libro storico della testimonianza di un sopravvissuto davanti a platee molto spesso occupate a far altro.
Anche l’antifascismo è un valore in crisi?
La Repubblica è nata da una volontà di antifascismo cui molto spesso non corrispondevano i fatti. Il fascismo ha avuto per molti anni un vasto consenso, la Resistenza invece l’hanno fatta poche decine di migliaia di individui. Di conseguenza l’Italia, a partire dall’immediato dopoguerra, è stata costretta a enfatizzare questo aspetto dell’antifascismo che ben poca traccia ha lasciato al tempo del regime. L’Italia è l’unico Paese che conosco in cui l’antifascismo non è un valore che unisce ma viene usato come motivo di scontro politico tra sinistra e destra, tra buoni e cattivi. Ogni volta che si dà del “fascista” a qualcuno dello schieramento opposto si danneggia in modo significativo la causa e un valore importante quale è l’antifascismo. E questo è un altro problema serio di cui val la pena occuparsi in questo Paese sempre più allo sbando.
Adam Smulevich, Pagine Ebraiche Agosto 2019