Gli indignati a tempo indeterminato
Pregiudizi e banalizzazione si tengono per mano, formando una catena inossidabile. Il più delle volte sotto la cornice del populismo culturale, quello per cui tutti saremmo in grado di capire qualsiasi cosa. Soprattutto, di giudicarla. Che è l’esercizio quotidiano del falso democratico. «Analfabetismo funzionale» è un termine che definisce l’incapacità di comprendere pienamente il senso di quel che si sta leggendo. Ovvero, si riescono a capire le singole parole, ma non il corretto senso del testo nel suo insieme. Anche quand’esso dovrebbe essere sufficientemente cristallino, L’analfabetismo di oggi, infatti, non rimanda al singolo significato di una parola ma alla strutturale incapacità di stabilire delle correlazioni di senso che non rispondano solo a degli stimoli precostituiti (in sostanza, pregiudizi, nel senso letterale del termine). La cattiva divulgazione (e la pessima ricezione pubblica) dei risultati del rapporto Ocse-Pisa, relativo all’anno trascorso, è stata un’occasione importante per capire che questo problema non riguarda esclusivamente il classico analfabeta funzionale – quello che è facile da identificare da subito, magari perché rivendica la sua incompetenza come una sorta di valore a sé – ma anche e soprattutto coloro che invece credono di capire quanto gli è presentato come una verità assodata (in questo caso: gli studenti italiani spesso non raggiungono gli standard minimi di comprensione dei testi sottoposti al loro vaglio). Quando, anche solo ad uno sforzo di lettura non estemporanea, aprirebbe invece ad orizzonti interpretativi ben diversi. Il rapporto raccoglie i risultati, ponderati ed interpretati analiticamente, provenienti da test somministrati (si dice così, con asettico linguaggio burocratico) a gruppi di quindicenni dei diversi circuiti scolastici dei paesi a sviluppo avanzato (e non) per misurarne le capacità di comprensione ed interpretazione dei testi e dei problemi di varie discipline, umanistiche o scientifiche. Così facendo, si intende ottenere uno sguardo prospettico su quanti di loro hanno raggiunto le competenze e le cognizioni di base per poter partecipare pienamente alla vita sociale. Come tutti i sistemi di rilevazione, non è infallibile. Misura dei trend di massima. Dopo di che, la ricezione pubblica dei risultati del report Pisa in Italia, attraverso la sua divulgazione giornalistica, hanno rivelato ancora una volta il grado di mistificazione con la quale leggiamo aspetti importanti della vita comune, a partire dal mondo della formazione. Non entriamo nello specifico del rapporto, che richiederebbe altrimenti un saggio a sé, posta la complessità dei temi che esso solleva. Ci soffermiamo invece, anche se solo di sfuggita, sugli effetti di una lettura distorta del suo testo, dai molti inteso come la denuncia di un’imperante ignoranza tra i giovani italiani, a partire dai circuiti educativi che eluderebbero in tale modo la loro funzione sociale. Non è così ed il Pisa lo mette bene in chiaro. Dopo di che, passata la prima ondata di “indignazione”, quella che coinvolge a catena rancorosi a tempo pieno ma anche ingenui assortiti, vale la pena di porsi un problema che, dalla metodologia (dei processi di comprensione di un testo, in questo caso non di quello o quelli sottoposti agli studenti bensì ai lettori di un report statistico) trapassa alla rete soggiacente di aspettative, sia cognitive che emotive, diffuse nella popolazione. In parole povere: il rivelare di non sapere leggere un rapporto che indaga – nei limiti stessi delle rilevazioni e delle inferenze di ordine socio-statistico – sul tasso di comprensione di un testo, è un vero e proprio contrappasso. Laddove la ricerca a tutti i costi del “clamoroso”, in genere indirizzato a confortare un pregiudizio di “lettura” della realtà basato sull’idea ossessiva del declino (in questo caso: “gli studenti italiani sono ignoranti, povera Italia!”) – vecchia sindrome che si ripropone in ogni generazione, per la quale ciò che segue è peggio di ciò che precede (se stessi) – è parte stessa di quell’universo pseudocognitivo e alter-narrativo che ci siamo abituati a chiamare «fake news». Che non sono solo notizie false ma, in senso lato, costituiscono un universo di convinzioni – radicato giacché falsamente assodato, quindi senza riscontro testuale e verifica oggettiva – che si presentano tuttavia come interpretazioni organiche e congrue, basate sulla denuncia sistematica di qualcosa che sarebbe stato occultato o comunque non sufficientemente evidenziato. Che dentro questo scarto di comprensione, ripetuto ossessivamente come una verità assodata, ci siano i germi dell’interpretazione della realtà attraverso il combinato disposto tra decadenza e complotto, si incarica di raccontarlo la storia recente. Il film di Polanski sull’affaire Dreyfus, ad esempio, fa proprio un’opera di scavo in tale senso. Non capire i processi complessi (anche la lettura di un documento del Pisa sta in questa definizione), compiacendosi semmai di un uso predeterminato di ciò che è presentato come chiave di interpretazione, è già di per sé un pregiudizio. Non razzista ma cognitivo e sociale. Sarebbe buona cosa che, almeno qualche volta, ci fermassimo un attimo, tirassimo il freno a mano, sospendessimo le reazioni a molla, predeterminate e quindi acritiche, interrogandoci invece su noi stessi, ossia su come stiamo osservando una realtà molto difficile da decifrare ma che, proprio poiché tale, richiede di dismettere i panni dei giudici implacabili a tempo indeterminato, quelli che credono di essere originali nel momento in cui ripetono il belato collettivo.
Claudio Vercelli