Il Diario e la sua negazione
Un gruppo musicale dall’evocativo nome «99 Fosse», spudoratamente antisemita, aveva a suo tempo rimodulato le note di una canzone di successo, sostituendovi le parole con le seguenti “liriche”: «Anna non c’è, è andata via/ l’hanno trovata a casa sua,/ nella soffitta di Amsterdam,/ ora è sul treno per Buchenwald!/ Un bel treno prima classe/ Oltre i confini del Terzo Reich/ e poi s’aprono le porte:/ “Avanti scendi adesso, che fai?/ Ti chiudi dentro al cesso? No, non puoi!/ Il capolinea è questo, non lo sai?/ E segui quella fila di giudei, di giudei!“/ Caro diario, ti voglio dire/ che qui è difficile scappare/ ma ci sono docce per farci lavare,/ c’è pure Mengele se ti senti male./ Una guardia entra e mi chiede/ “Dimmi quanti anni hai?“/ e senza attendere risposta/ “Avanti esci adesso, su dai!/ porta il tuo diario, se lo vuoi!/ Ti porteremo a spasso insieme a noi,/ su, non aver paura, Anna dai, Anna dai!“/ Adesso lo vedo, è proprio vicino,/ c’è un grande forno con un camino,/ uno strano odore che vedo lassù/ vedo del denso fumo blu!/ Mi fa mettere in colonna,/ poi viene davanti a me/ e mi urla sulla faccia:/ “Se vuoi ti brucio adesso, se vuoi,/ oppure io ti gasso, con i tuoi,/ comunque fa lo stesso, tu lo sai./ La soluzione è questa per gli ebrei,/ per gli ebrei!“». Il loro nome si richiamava, scimmiottandolo, a quello dei 99 Posse, uno storico gruppo che si è sciolto nel 2005, invece legato ai centri sociali. Con loro, però, non avevano niente a che vedere, essendo stati promossi dal forum Stormfront, di chiaro stampo neonazista, dagli skinheads e dal White Power. I 99 Fosse hanno potuto fare girare solo in quegli ambienti underground il testo contenuto nell’osceno motivetto, tratto da un album dal non meno significativo titolo «Zyklon B». Detto questo, perché proprio con Anne Frank? La domanda si è riproposta dopo la denuncia dell’aggressione subita dall’ex parlamentare Arturo Scotto, durante la notte di Capodanno a Venezia. Tra le frasi pronunciate dal gruppetto di giovani neofascisti c’era infatti anche un richiamo abituale in certi ambienti, quello per l’appunto alla giovanissima vittima della Shoah, morta a Bergen Belsen tra febbraio e marzo del 1945. «Anna Frank sei finita nel forno», così gridavano, senza neanche sapere che stavano pronunciando una cosa peraltro non vera. Va da sé che a costoro, come a molti altri, poco o nulla interessi della veridicità dei fatti storici. Mentre di certo, si identificano con la loro perversione. L’invettiva (falsa poiché il corpo è stato seppellito in una fossa comune, nel mezzo di una gigantesca epidemia di tifo; di esso, ossia della sua identificazione, nulla si è poi potuto fare a liberazione del campo) tuttavia funziona a prescindere, ossia si autoconvalida, coniugando Anne Frank ed ebrei a forni crematori. A chiosa di questo sorta di mefitico sillogismo, basti pensare che per non pochi neonazisti la morte comminata agli ebrei è identificata non con il ricorso ai gas ma proprio ai forni crematori, quasi che le vittime vi fossero abitualmente introdotte ancora vive. Questa versione pulp-dantesca (per usare un’aggettivazione inusuale, dovendo definire qualcosa che rasenta l’inesprimibile), è molto diffusa. Ripete come greve verso, a modo suo, il tragico monito in voga nei campi, l’imperativo «tu passerai per il camino!». Inutile quindi stare lì a contestarla per la sua oscena incongruenza. Semmai bisogna capire perché ad essa vi si faccia ricorso. Poiché serve senz’altro a diversi usi, tra i quali il non riconoscere che lo sterminio sia avvenuto con il gas (quando ciò fa comodo, per negarne l’evidenza) così come il coniugare l’idea di una presunta “impurità” degli ebrei (in quanto “razza inferiore”, tale perché inumana) alla purificazione che il fuoco avrebbe invece in tale modo garantito. Si tratta di un immaginario di corredo che si può incontrare nei file di comunicazione tra individui che si identificano con queste affermazioni e, soprattutto, con l’area politica da cui germinano. Per così dire. Dopo di che, sappiamo tutti cosa sia e, soprattutto, cosa rappresenti il Diario di Anne Frank. Una prima risposta, quindi, già si trova nella diffusione quasi universale della testimonianza che ha reso non come deportata in un Lager ma in quanto adolescente che si vede impedita un’esistenza tanto ordinaria quanto necessaria. Poiché il suo resoconto di una cattività domestica ci restituisce la normalità dei bisogni, delle idee, delle stesse fantasie e dei desideri che stavano accompagnando colei che cercava comunque di divenire una giovane donna. Il suo linguaggio universale ci riconsegna l’umanità, che non è fatta di prevedibilità, di ovvietà, ma di discontinuità, di ricerca, di rapporto continuo tra l’evoluzione della propria intimità e la sua risonanza, spesso conflittuale, nel rapporto con gli altri, a partire dai famigliari. Una tale dimensione di processo – che appartiene ad ognuno di noi, in quanto esseri umani – è esattamente ciò che invece, quel che chiamiamo “fascismo” (non tanto come esclusivo regime politico bensì soprattutto come concezione metastorica delle relazioni sociali) intende negare. Poiché in qualsiasi sistema totalitario l’individualità è cancellata. Non ha importanza che il gruppetto veneziano di teppisti e squadristi di ciò poco o nulla avesse fatto oggetto di riflessione. Il fascismo eterno è la cancellazione del bisogno di riflettere sugli altri (e quindi su se stessi). È orrore per la soggettività, che nel caso di Anne Frank viene cancellata buttandola simbolicamente “nel forno”. La radice di questo meccanismo mentale è l’uniformazione che sta alla base di ogni regime totalitario: non eguaglianza di diritti nelle differenza di storie e identità ma omologazione ad un’unico modello, ripetuto ossessivamente. Non sono riflessioni nuove e neanche troppo originali (qualcuno, nei tempi bui che furono, definiva tali meccanismi come «fuga dalla libertà») ma si impongono ancora una volta dinanzi al ripetersi maniacale dei medesimi moventi. Nella forma mentale di certuni possono benissimo coesistere, allo stesso tempo, affermazioni tra di loro palesemente contraddittorie: “Anne Frank non è mai esistita e il suo Diario è un clamoroso falso” (negazionismo); “Anne Frank meritava di morire, in quanto ebrea” (antisemitismo sterminazionista); “Anne Frank non è morta anche se è stata deportata, meritandoselo” (antisemitismo giustificazionista); “Anne Frank è morta a causa delle difficili condizioni dettate dalla guerra che, peraltro, hanno coinvolto tante persone come lei e diverse da lei” (antisemitismo situazionista). Si potrebbe andare avanti a lungo nell’elencare le diverse disposizioni con le quali c’è chi si dedica al gioco infame di togliere e mettere un elemento rispetto all’altro, per poi – tuttavia – riconfermare l’assioma che lega “ebreo” a “morte”. Non di meno, ed è un secondo tentativo di risposta al quesito in esergo, la figura storica della giovane vittima, in quanto simbolo di una condizione ebraica ma anche a tratti universale – l’infanzia e l’adolescenza distrutte dagli adulti – è trascolorata nel corso del tempo, transitando dalla sua dimensione originaria, essenzialmente di essere umano che lascia una ricca testimonianza di sé, a quella di un oggetto ai limiti dell’uso pop. Comunque iconico. Sì, anche di questo si tratta, benché questo aspetto di profonda e irritante mercificazione (che non ha nulla a che fare con il valore civile, morale, culturale della sua figura in carne ed ossa, e delle parole che ha vergato prima di essere assassinata) è una parte del modo in cui Anne Frank è stata reimmaginata dagli stessi neonazisti e dai fascisti di sempre. Mercificare, in questo caso, vuole dire decontestualizzare. Trasformare un soggetto storico concreto in una sorta di figura senza tempo, quindi slegata dai concreti accadimenti di cui fu vittima, è un modo per cristallizarne l’immagine. Non è in questione la straordinaria diffusione che il suo Diario ha conosciuto nel corso del tempo, nelle diverse versioni – negli anni a noi più prossimi finalmente emendate degli interventi del padre – ma la sua riduzione ad un simbolo depoliticizzato. Ossia, che viene inserito all’interno di un discorso puramente umanitario (“povera ragazza!“) che esula dall’identificazione delle responsabilità collettive, non solo morali ma anche e soprattutto materiali, così come dei regimi che resero possibile una simile catastrofe di cui lei è assurta a memento. Si tratta di una questione delicatissima, quest’ultima, poiché non rimanda solo alla storia ma al buon uso della memoria. Una questione aperta, con la quale ci si dovrà sempre più spesso confrontare, se non si vuole rimanere inchiodati allo statuto di vittime eterne, alle quali – per l’appunto – si porta solidarietà solo perché è l’unica identità alla quale gli interlocutori sono disposti a riconoscere una qualche legittimazione. Ma qui si è ben oltre le scempiaggini degli squadristi verbali di cui si diceva poche righe sopra.
Claudio Vercelli