Il vittimismo palestinese

Nelle mie note degli scorsi 28 ottobre e 4 novembre ho avuto modo di svolgere alcune considerazioni sul fenomeno dell’allacciamento di relazioni diplomatiche tra Israele e alcuni strati arabi, da sempre storici nemici, quali gli Emirati Arabi Uniti, l’Oman e il Bahrein (con il tacito assenso dell’Arabia Saudita, senza il cui placet sicuramente l’operazione non sarebbe andata in porto). E ho posto tre domande: cosa sta accadendo? perché sta accadendo? cosa si può fare per consolidare ed estendere questo importante fenomeno, che tanto fa sperare per il futuro?
Avendo cercato di rispondere, nei precedenti interventi, alle prime due domande, cerco ora di ipotizzare una risposta alla terza.
Non c’è dubbio che un futuro scenario di generale pace tra Israele e tutti i suoi vicini arabi – o, almeno, un ampio numero di essi – rappresenterebbe uno scenario di sogno, sul quale nessuno – e io meno di tutti – avrebbe scommesso. Esiste una strada per propiziare questo obiettivo, soprattutto nel mutato scenario internazionale, a seguito del risultato delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti?
La risposta a tale domanda apparirebbe, a prima vista, semplice. Ma la semplicità, probabilmente, è illusoria.
Cosa ha fatto, Israele, per ottenere questa normalizzazione di relazioni diplomatiche? Cosa, che non avesse provato a fare in precedenza? Verrebbe da rispondere: niente. Israele non ha manifestato nessuna disponibilità al dialogo in più di quanto non avesse sempre fatto in precedenza, non ha mutato politica, non ha pagato nessun prezzo. Sono gli altri, indubbiamente, che hanno cambiato posizione a 180°, accettando uno scambio di ambasciatori con “il piccolo Satana”, improvvisamente spogliato, chi sa perché, di ogni sembianza diabolica. Israele non ha mai detto che quei Paesi fossero dei Satana con cui non si dovesse parlare, ha sempre auspicato il dialogo, la pace, il mutuo riconoscimento. Sono gli altri, ripeto, che hanno cambiato atteggiamento. Al di là delle ragioni di questo mutamento – su cui ho ipotizzato delle spiegazioni nella nota di mercoledì scorso -, c’è da chiedersi: se Israele non ha fatto niente per raggiungere l’obiettivo della pace con questi primi Paesi, dovrà continuare a non fare nulla per estendere tale risultato anche nei confronti di tutti gli altri? Dovrà solo attendere che la pace cada dall’alto, come un frutto maturo dal ramo di un albero?
Non credo che questa sarebbe una giusta opzione, perché la storia è imprevedibile, è molto difficile prevedere ciò che accadrà anche in un futuro molto prossimo, per non dire in uno remoto. E non è affatto detto che un processo iniziato continui lungo la medesima direzione, che non subisca rallentamenti, interruzioni o retromarce. E, in genere, gli atteggiamenti fatalisti, in politica come nella vita, non pagano, così come non paga sperare unicamente nell’intervento della Provvidenza.
Non direi, pertanto, che occorra attendere che la pace con gli altri Paesi venga da sola, senza fare niente.
Quanto al che fare, non mi sento di dare consigli “in positivo”, ma uno solo, “in negativo”, alla luce dell’esperienza degli ultimi decenni, sì, ed è il seguente.
Se la pace, raggiunta oggi con Paesi piuttosto lontani, sembra ancora irraggiungibile con i palestinesi, i “nemici della porta accanto”, ciò dipende soprattutto dal fatto che questi, per responsabilità della loro scellerata classe dirigente, e della stessa comunità internazionale, sono prigionieri di un vittimismo distruttivo, che li pone in un atteggiamento di odio implacabile e di rancorosa, biliosa e impotente frustrazione. Il loro popolo sarebbe mondo da ogni responsabilità, e sarebbe vittima della più colossale ingiustizia che la storia abbia mai conosciuto, perpetrata da forze oscure e demoniache del male. E, inoltre, fanno finta di non capire chi siano i primi, veri responsabili della loro situazione, ossia gli amatissimi “stati fratelli” della regione, che, per lunghi decenni, hanno sempre rifiutato ogni soluzione concordata del conflitto, usando la Palestina unicamente come un coltello contro Israele. Questa visione falasa e distorta è un muro invalicabile, che chiude a ogni logica, impedisce qualsiasi ragionamento sensato, ogni minimo passo positivo. I continui aiuti dati all’Autonomia palestinese dall’esterno, senza chiedere niente in cambio, non fanno altro che rafforzare questa convinzione deleteria di dovere solo ottenere riparazione, di essere stati frodati e derubati. Su queste basi, nessuna intesa negoziale sarà mai possibile, perché, qualsiasi cosa si offra, apparirà sempre troppo poco. La formula “pace in cambio di terra”, come si è ampiamente visto, è del tutto illusoria, se non altro perché nessuno, da parte palestinese, ci ha mai creduto.
Una vera svolta, pertanto, a mio avviso, potrà aversi solo col superamento, da parte palestinese, di questo insulso e velenoso vittimismo, di questa autosegregazione in una prigione di realtà immaginaria. Ma è, evidentemente, una cosa che compete agli stessi palestinesi. Non credo che Israele possa fare molto in questa direzione. La Comunità internazionale potrebbe, invece, intervenire su questo fronte – se non altro smettendo di fare cose sbagliate -, ma non mi pare, finora, che abbia intenzione di farlo, in quanto assestata – in buona o cattiva fede – su una lettura della realtà decisamente deformata e irreale, e anche perché la prosecuzione di uno stato di tensione e violenza continua a fare ancora comodo a molti attori.

Francesco Lucrezi

(11 novembre 2020)