Storie di Libia – Giulio Hassan
Dopo il pogrom del 1967, alcune famiglie decisero di tornare a Tripoli per cercare di vendere i propri beni. Anche Giulio Hassan tornò alcune volte, per liquidare le proprietà e le attività di suo padre, in modo da portare via il ricavato. Portò con sé la moglie e il figlio, perché era convinto che ormai il pericolo fosse passato. E che i libici non ce l’avessero più con gli ebrei.
Abitavano nell’appartamento dei suoceri, con la porta blindata, durante i viaggi compiuti nel 1968. L’ultima volta, nell’estate del 1969, ormai con due bambini, si stabilirono a casa dei suoi genitori perché l’appartamento dei suoceri era stato dato in affitto. Non era un luogo ideale visto che si trovava proprio al centro della città, su una strada principale e quindi molto in vista, ma non avevano altra scelta. Ci vivevano loro, in quel palazzetto, e al piano di sopra un’altra famiglia. Al piano terra c’era un negozio di tappeti, che suo padre aveva affittato ad un suo amico arabo. Per quanto riguarda la vendita dei beni, trovarono un grosso impedimento. A causa di leggi discriminatorie contro gli ebrei, non potevano vendere nulla. Giulio, con l’aiuto di un suo amico notaio libico, simpatizzante degli ebrei, trovò un modo per poter superare questo ostacolo. In questo modo egli riuscì ad aiutare moltissime famiglie ebraiche. Furono recuperati anche molti gioielli confiscati alle donne all’aeroporto, il giorno della partenza dopo il pogrom. Era felicissimo di aiutare la sua comunità, perché vedeva questa cosa come una missione. Riuscì a farlo fino al settembre 1969.
Successe che il primo settembre scoppiò la rivoluzione. L’esercito guidato dal colonnello Gheddafi, spodestò il re, prese il potere e fu istituito il coprifuoco. Questa volta però i libici davano la caccia solo agli ex membri e collaboratori del vecchio governo, e non davano fastidio agli ebrei. Dopo alcuni giorni però un suo conoscente si recò a casa loro, mettendolo al corrente che i libici avevano ricominciato a perseguitare gli ebrei. Venivano presi e picchiati per la strada, e ciò era successo anche a lui. Consigliò a Giulio di trovare un luogo sicuro dove nascondersi, dato che la folla stava avanzando ed era iniziata la “caccia all’ebreo”. L’appartamento dava su un terrazzo nel quale c’era una lavanderia ben celata. Giulio decise di nascondersi li. Se qualcuno fosse venuto a cercarlo, sua moglie gli avrebbe detto che non era in casa. In effetti era la verità perché la terrazza si trovava fuori dal loro appartamento….
Ad un certo punto una grande folla iniziò a radunarsi nella strada di fronte, e videro che trascinavano fuori dalla sua casa un ebreo che abitava nei pressi per picchiarlo. Nel frattempo dal negozio dei tappeti si accorsero che c’era movimento nella terrazza, dato che in alcuni punti il soffitto era in vetrocemento e corrispondeva al pavimento. Così il proprietario, che doveva essere un “amico di famiglia”, fece salire due commessi, che si arrampicarono sui muri esterni per arrivare alla terrazza: era l’unico modo per raggiungerla. Presero Giulio e lo portarono via, sotto gli occhi spaventati di sua moglie. Una volta in strada, la folla inferocita iniziò a picchiarlo. Jasmine davanti a quella scena iniziò a gridare di lasciarlo andare, di lasciarlo stare. Lui sapeva che sarebbe stato linciato e non voleva che la moglie assistesse a tale violenza, sarebbe stato un trauma. Le gridò di andare via dal balcone, di chiudersi dentro casa. Quando lui per le violente botte stava quasi cadendo a terra, e lì sarebbe stata la fine per lui, successe un miracolo. Arrivò un soldato il quale iniziò a sparare in aria, riuscendo a strapparlo dalla folla, e poi lo fece salire su una camionetta, e lo portò nella sede della polizia. Dopo circa due ore di interrogatorio fu rilasciato. Quando tornò a casa vide la porta spaccata. Jasmine ha raccontato nella sua intervista ciò che le era successo.
Dopo pochi giorni una macchina si fermò sotto casa. Erano agenti della polizia segreta che lo presero e lo arrestarono. Venne messo in una cella che era 2 m x 90, con una piccola finestrella dalla quale gli veniva passato il cibo. Non erano state fatte alcune accuse contro di lui, e non comprendeva il motivo per il quale lo trattenessero in carcere. Per più di una settimana non potè telefonare a nessuno, gli era proibito. Quando finalmente ebbe il permesso, chiamò sua moglie, ma non trovandola a casa, telefonò al suo amico Omero, pregandolo di avvertire Jasmine che stava bene e dove si trovava. Non appena lo seppe, la donna cercò ogni modo possibile per andare a trovarlo, portandogli da mangiare e tante tavolette di cioccolata. Dopo un po’ di tempo fu trasferito nelle celle insieme agli altri prigionieri politici, membri dell’ex governo. Un giorno portarono dei nuovi prigionieri che avevano tentato un colpo di stato. Venivano picchiati ed essi, per protestare per il pessimo trattamento che veniva usato nei loro confronti, decisero di fare lo sciopero della fame. Le loro celle si trovavano lungo il percorso di Giulio verso il bagno.
Le loro celle venivano aperte per permettere anche ad essi di usarlo. Allora Giulio, per aiutarli a sostenersi per la mancanza di cibo, senza farsi notare gettava nelle loro celle dei pezzi di cioccolata. Con il suo modo di fare, la sua gentilezza e il suo altruismo si era fatto moltissimi amici tra i prigionieri, anche tra le guardie. Un giorno un suo compagno di cella gli si avvicinò e gli disse: “Dì a tua moglie di non venire più qui”. Egli rimase sorpreso da tali parole e gli chiese spiegazioni. Egli indicò un ufficiale molto grosso e disse: “Quello, quando tua moglie ti ha portato da mangiare l’ha picchiata”. Purtroppo era vero. Così Giulio affrontò l’ufficiale, chiedendogli perché avesse picchiato sua moglie, una donna. Si doveva vergognare e se aveva qualcosa da dire, la doveva dire a lui e non colpire una donna. Non ricevette risposta ma, ritornato in cella, dopo un po’ vennero le guardie che lo picchiarono selvaggiamente. Da quel giorno ogni volta che essi entravano per portargli da mangiare, prima lo picchiavano brutalmente, poi gli davano da mangiare e uscivano. Tutti i giorni così. Per non spaventare sua moglie, e per non farle capire come era trattato, cercava di giustificare le sue contusioni, i capelli che gli avevano tagliato, un po’ di sangue che gli vedeva addosso, dicendole che era caduto, che aveva deciso di farsi tagliare i capelli. Sicuro della sua amicizia con alcune guardie, egli decise di scrivere una lettera a Jasmine, nella quale fortunatamente non scrisse nulla di compromettente o accusatorio nei confronti delle guardie o dei responsabili del carcere, ma solo una richiesta di portargli alcune cose, dei vestiti puliti, del caffè. Il soldato che si era prestato a fargli questa cortesia, gli disse che aveva una voglia terribile di una bottiglia di whisky, e lui gli disse: porta questa lettera a mia moglie e lei ti darà una bottiglia di whisky. Passarono i giorni e lui non solo non ricevette le cose che aveva chiesto, ma neanche sua moglie andava più a trovarlo. Un giorno venne chiamato dal capo della prigione, che gli disse: “Tu sei italiano, mi puoi tradurre questa lettera”?… Lui la prese e vide che era la sua lettera. “Lo sai che è proibito scrivere e comunicare con le persone fuori”, gli rammentò. Certo che lo so gli rispose. “Ma anche tu non hai nessun diritto di tenermi qui, senza accuse”.
Il direttore gli chiese: “Come ti chiami?”. E lui rispose: “Giulio Hassan..”. Bene Giulio Hassan, io ti condanno a tre anni di carcere perché non mi piace il tuo nome. Non contento, gli diede un’ulteriore punizione. Lo condannò a 30 giorni in cella di isolamento a pane e acqua, dormendo per terra, solo con una coperta. Così venne preso e portato in un altro edificio, in un’altra cella con una sola piccola finestra, senza letto, senza niente, solo con una coperta. Dentro quel luogo, ebbe un attimo di disperazione e iniziò a pensare come poteva ammazzarsi, poi si addormentò.
Sentì poi bussare alla porta della sua cella e una voce che lo chiamava: “Jehùdi, vieni qua”. Lo sai chi sono io? Ed egli rispose di no, che non lo sapeva chi fosse. Lui rispose: “Sono uno di quelli a cui hai dato la cioccolata”. Non ti preoccupare, aggiunse, “io ti prometto che ogni giorno tu avrai carne, da mangiare, e il giornale”. Così fu per 30 giorni. Allo scadere del tempo, una guardia venne a prenderlo e gli disse di raccogliere la coperta e di portarla con sé. Rimase un po’ titubante perché sotto di essa era nascosto il suo ultimo giornale: se l’avessero scoperto sarebbero stati guai. Un po’ rassegnato la raccolse. Del giornale non vi era più traccia, un altro miracolo. Quando Jasmine ebbe il permesso di partire e lasciare la Libia, da una parte egli fu triste, ma dall’altra si sentì sollevato. Per tante cose si sentiva in qualche modo legato, per il timore che potessero fare del male. A sua moglie e ai i suoi figli. Da solo si sentiva più forte. In quegli anni di prigionia, umiliato, picchiato, per non farsi sopraffare dalla disperazione e dalla depressione, immaginò di essere uno spettatore che guardava un film: quella non era la sua vita, era solo un film, e prima o poi le luci si sarebbero riaccese. La famiglia, dall’Italia, riuscì a mandargli tre pacchi con delle azzime per osservare Pessah, la Pasqua ebraica. All’inizio si rifiutarono di darglieli, ma grazie ad un uomo che insegnava il Corano ai prigionieri seppe che c’era una sura che diceva che si doveva dare la possibilità alle persone di altre religioni di poter onorare i propri precetti. Questa cosa egli la fece presente ai suoi carcerieri, i quali furono costretti a dargli i tre pacchi di azzime. Ne mangiò uno perché la festività era già arrivata, e gli altri due li conservò. Li mangiò uno per ogni anno, per festeggiare la ricorrenza nelle due successive occasioni.
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(Per contattare l’autore, anche per eventuali testimonianze sulle storie e le memorie degli ebrei di Libia, è possibile scrivere a: davidgerbi26@gmail.com)
David Gerbi, psicoanalista junghiano
(13 marzo 2022)