Storie di Libia
Giulio Hassan / 4
La vita in carcere per Giulio Hassan fu molto dura. Ma cercò di resistere psicologicamente e di instaurare un rapporto quasi amichevole con le guardie. Un giorno una di loro gli confidò che un commilitone aveva ucciso la famiglia Luzon e per questo era stato condannato dal tribunale del re. Dopo la Rivoluzione fu rilasciato da Gheddafi e arruolato nell’esercito. Giulio si diresse verso la guardia artefice di un tale assassinio e gli urlò che si doveva vergognare di aver ucciso una famiglia inerme. Il soldato gli rispose che si vergognava, ma aveva ricevuto un ordine. Tutti erano schifati dal suo operato, fin dal primo giorno di servizio lo chiamavano assassino.
Nel 1972 fu portato come prigioniero un giornalista che era accusato di aver plagiato il popolo con i suoi articoli. Ma in tribunale si difese bene ribadendo che raccontava la verità sui fatti successi. Quel giorno nel quale fu portato in prigione ed erano seduti vicini a bere il tè, si rivolse a Giulio chiedendo chi fosse. Lui rispose con il suo nome e l’uomo disse che aveva sentito parlare di lui, ma lo immaginava anziano e corpulento e non si aspettava di vedere un giovane. Per protestare in merito all’ingiustizia subita il giornalista decise di fare lo sciopero dell’igiene personale e della pulizia della cella. Ma dopo alcuni giorni l’olezzo era troppo forte. Approfittando del fatto che fu portato in tribunale, Giulio lavò la cella e anche gli indumenti del compagno di letto. Quando ritornò e vide tutto pulito, questi iniziò ad inveire contro di lui chiamandolo “ebreo, sionista”. Urlò alle guardie di portare via il “sionista”, che non lo voleva in cella con lui. Gridava che gli infettava l’aria e che non c’entrava con loro musulmani. L’ebreo non faceva parte dell’ex governo. In realtà anche se sembrava che fosse contro di lui, cercava di aiutarlo. Con il tempo infatti divennero ottimi amici. Il processo del giornalista fu trasmesso in televisione.
Giulio vide tra gli avvocati in corte l’avvocato Nafa, un suo caro amico, che era stato in prigione con lui. Pensò di scrivere una lettera a sua moglie perché erano anni che non aveva sue notizie e la nascose in un pacchetto di sigarette. Si rivolse al suo amico giornalista dicendogli che gli avrebbe dato due possibilità. La prima di diventare un eroe, consegnando al capo del carcere la sua lettera. La seconda di dimostrare vera amicizia. La prossima volta che fosse andato in tribunale, avrebbe dovuto rivolgersi all’avvocato suo amico, e con la scusa di offrirgli una sigaretta dargli tutto il pacchetto, menzionando che era da Giulio. Dopo circa un mese Jasmine ricevette la lettera. Il giornalista arabo aveva scelto l’amicizia. Dopo qualche tempo fu condannato con la condizionale e rilasciato. C’era una regola nel carcere. Nel momento del rilascio ogni prigioniero aveva dieci minuti per raccogliere tutta la propria roba, in caso contrario o l’avrebbero spedita a casa sua o addirittura cambiato idea sulla scarcerazione rimandandola a chissà quando. Egli però non volle uscire senza prima aver salutato Giulio. E prima di andare via gli promise che avrebbe fatto di tutto per aiutarlo ad uscire pure lui. Destino volle che purtroppo l’aereo sul quale viaggiava per andare in Egitto sbagliasse rotta e finisse nel Sinai, venendo così abbattuto dall’artiglieria israeliana. Egli morì con tutti i passeggeri.
La vita continuava come al solito in carcere, tra guerre psicologiche, vessazioni e percosse. L’unico svago permesso ai prigionieri era guardare la televisione in casi particolari e sentire la radio. Così seppero che il governo aveva deciso di fare un’inchiesta sulle condizioni di vita dei carcerati. Erano giunte voci che essi venivano torturati, picchiati e anche uccisi. Arrivarono in carcere gli investigatori con i fotografi. I prigionieri erano per lo più tumefatti e sporchi di sangue. Tutti denunciarono i trattamenti subiti ma non Giulio. Egli disse che era caduto giocando a pallone e che non sapeva nulla di quanto si dicesse. L’indagine terminò con la conferma che effettivamente i prigionieri fossero stati trattati così come si diceva. In TV il colonnello Gheddafi annunciò che nell’anniversario della rivoluzione, il primo settembre, avrebbe rivelato al popolo libico i risultati di tale inchiesta. Dopo un discorso di circa tre ore in uno stadio colmo di gente Gheddafi arringò il pubblico dicendo che fosse vero che le guardie avevano trattato malissimo i prigionieri, ma che lo avevano fatto in buona fede per fare giustizia contro i traditori del paese. Intendevano difendere il popolo libico dai nemici, non lo facevano per il gusto di fare del male. Dipinse tali carnefici come eroi, che avevano fatto la rivoluzione con lui, ed avevano agito senza che lui ne fosse al corrente. Non poteva decidere sulla loro sorte e lo avrebbe lasciato fare al popolo. Naturalmente la gente non li volle condannare. Ma questa era una tattica del colonnello. Tutti i crimini commessi da questi ufficiali erano stati verbalizzati. Se lui fosse caduto, di sicuro il nuovo governo li avrebbe giustiziati tutti. Perciò, per non rischiare una tale sorte, sarebbero diventati i suoi difensori più accaniti.
Nel 1973, il 6 ottobre, scoppiò la Guerra del Kippur tra Egitto e Israele. Memore delle vecchie esperienze di guerre nelle quali Israele era stata coinvolta, Giulio si rinchiuse in cella, non uscendone per circa una settimana. Temeva che per le rappresaglie potesse essere sgozzato. Poi decise di uscire e prendere i pasti con gli altri. Indossava una tuta dell’Adidas bianca e celeste, regalatagli da un amico arabo anche lui prigioniero e si recò in sala. Come entrò, il gruppo di sciiti iniziò a deriderlo dicendo che era rimasto nascosto perché sapeva che l’Egitto stava vincendo, ma avendo saputo che aveva vinto Israele usciva dalla cella indossando la bandiera israeliana. Giulio non rimase in silenzio. Chiese come mai essi parteggiassero per una fazione o l’altra dato che lì tutti erano uguali, trattati come cani, e loro come arabi non erano certo chiamati “fratelli” dalle guardie. Finita la guerra fu convocato dal direttore del carcere che senza tanti convenevoli chiese a Giulio dove fosse sua moglie. Egli rispose che ne era all’oscuro, in Italia o forse anche risposata, lui sapeva che non aveva mai ricevuto alcuna notizia. Ma l’uomo gli disse che ella si trovava a Tripoli e che l’indomani sarebbe venuta a trovarlo. Pensò a qualche altra tattica di guerra psicologica e chiese all’ufficiale se fosse venuta con i bambini. Egli rispose che non lo sapeva. Ciò per lui fu una conferma che veramente Jasmine fosse lì. Quasi impazzì di rabbia, non solo per il rischio che sua moglie avrebbe corso, ma anche perché lei era il suo punto debole. La paura che le sarebbe potuto accadere qualcosa lo destabilizzava. Tutto questo distrusse tre anni di corazza che si era costruito per resistere alla vita in carcere. Si era sentito sempre forte perché non avevano come ricattarlo, ed ora avrebbero potuto farlo.
L’indomani arrivarono le guardie che lo misero in una camera con due soldati dentro. Quando arrivò la moglie fu loro imposto di parlare solo in arabo. Egli la guardò arrabbiato dicendole che doveva andare via. Ma lei rispose che era tornata perché aveva buone possibilità di farlo liberare. Dopo un certo tempo gli venne detto che sarebbero iniziate le indagini su di lui, per conoscere veramente chi fosse e cosa avesse fatto. Poi venne una macchina a prenderlo e lo portarono nella sede operativa del Controspionaggio libico. Fu fatto accomodare in una stanza. Entrò un ufficiale che lui riconobbe, il colonnello Ghazali, suo amico, ex compagno di cella. Subito Giulio gli chiese come mai, come Capo della Polizia Segreta, non avesse mosso un dito per liberarlo in quei tre anni. Ghazali gli rispose che lui contava solo lì e purtroppo sui prigionieri politici non aveva nessuna autorità. Allora Giulio domandò che cosa volesse e perché si trovava lì. Egli gli rispose di stare tranquillo, che sua moglie era protetta, ma che faceva impazzire coloro che erano incaricati di seguirla, dato che era imprevedibile nei suoi movimenti. Gli promise che l’indomani l’avrebbe portato in una camera dove avrebbe potuto parlare con sua moglie indisturbati. In quel momento Jasmine arrivò al Quartiere Generale e li fecero incontrare. Quando Giulio incontrò la moglie le raccontò che lo avrebbero rilasciato presto dato che avevano avuto conferma della sua innocenza e che essi avrebbero potuto continuare a vivere indisturbati in Libia, che facesse venire i bambini insomma. Jasmine si ribellò a tali affermazioni , pensando che Giulio intendesse veramente continuare a vivere in Libia, dicendogli che dovevano andarsene al più presto. In realtà Giulio era sicuro che, stando in una camera della sede della Polizia Segreta, ci fossero molti microfoni nascosti e avrebbero ascoltato tutto. Sperava che lei capisse al volo che erano spiati e così continuò nel dire che potevano rimanere a vivere lì e che avrebbero potuto portare anche i loro figli. Ma lei continuava a contrastarlo e lui si ricordò della parola segreta che da ragazzi avevano inventato per far capire di essere in pericolo. La ripeté molte volte e finalmente la moglie capì e mostrò di essere d’accordo con il marito. Fu riportato in carcere. Dopo alcuni giorni, il 22 Dicembre 1973, entrarono nella sua cella e gli dissero di raccogliere tutta la sua roba ché sarebbe stato rilasciato. Raccolse le sue cose nei 10 minuti concessi, e lo misero fuori dal carcere. Arrivò una macchina, che era stata messa a disposizione dal Ministro degli Interni, dalla quale scese sua moglie. Dopo essere rimasto rinchiuso per tre anni desiderava sempre stare all’aperto, uscire per strada, girare per la città, camminare e vedere gente, e non nell’auto che Jasmine aveva noleggiato in previsione della sua liberazione. Andarono a trovare l’avvocato Nafa, l’amico di Giulio che era stato anche assunto dal padre quale legale per cercare di farlo liberare . Questi lo rimproverò e gli disse di non andare in giro e di non farsi vedere, di tenere un profilo basso: non si sapeva chi lo avesse fatto arrestare e rischiava di essere nuovamente incarcerato. Gli consigliò di andare a riprendere il passaporto col visto d’uscita e di andare via il più velocemente possibile. Così Giulio e Jasmine si recarono l’indomani all’Ufficio Passaporti, ma l’impiegato allo sportello si rifiutò di darglieli. Disse che non gli avrebbe dato i passaporti perché sapeva che lui voleva partire per andare in Israele. L’uomo faceva apposta per indispettirlo e Giulio non avendo voglia di combattere si rivolse al capo della polizia segreta Ghazali, che gli aveva promesso di fare il possibile per aiutarlo, e gli disse che vedendo le sbarre si era sentito male e gli chiese di far avere loro i passaporti. Il Ghazali procurò loro i passaporti. Così finalmente poterono partire per l’Italia, non prima di essere passati a salutare il ministro degli Interni, Alkhueldi Elhamidi, che gli chiese ufficialmente scusa a nome del Comando del Consiglio della Rivoluzione e del Col. Gheddafi, per averlo “dimenticato” in carcere (quattro anni, tre mesi e dodici giorni…).
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(Per contattare l’autore, anche per eventuali testimonianze sulle storie e le memorie degli ebrei di Libia, è possibile scrivere a: davidgerbi26@gmail.com)
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David Gerbi, psicoanalista junghiano
(28 marzo 2022)