LA RIFLESSIONE – Rav Somekh: due “A” da evitare

“Perciò hanno chiamato questi giorni Purim (“sorti”) dal nome della sorte (pur)” che il malvagio Haman aveva tirato per pianificare lo sterminio di tutti gli Ebrei (Ester 9, 26). Mi domando perché la festa sia stata denominata al plurale, dal momento che nella Meghillat Ester la parola “sorte” appare sempre al singolare. La risposta: Purim segna in realtà il capovolgimento di una sorte infausta doppia. Entrambi i fattori cominciano con la lettera A.
Anzitutto: A come antisemitismo. È quanto emerge con chiarezza da una lettura piana di quel racconto che tutti noi siamo abituati a sentirci ripetere dacché eravamo alti una mela e una spanna. Il primo ministro privo di scrupoli (Haman) di un re stolto (Achashwerosh) il quale, piccato del fatto che un ebreo di corte (Mordekhay) non si inchinava al suo passaggio secondo le disposizioni che egli stesso aveva dettato, trama di uccidere tutti i suoi correligionari. Senonché la lite del re con la prima moglie (Washtì) conduce una ragazza ebrea (Ester), cugina dello stesso Mordekhay a diventare regina e a sventare l’infame progetto con il sostegno di questi. La data stabilita per lo sterminio diviene occasione di rivalsa per gli Ebrei, i quali stabiliscono il giorno successivo come festivo per le generazioni a venire, a perenne memoria del proprio riscatto.
Un elemento comune a molte vicende di antisemitismo è la ricerca del silenzio sull’identità, nell’illusione di evitare danni peggiori in futuro: Ester non rivela la propria origine fino alla soluzione della trama. Il Talmud riporta che quando il testo della Meghillah fu poi redatto, la regina stessa chiese di poter essere consegnata alla memoria della posterità, ma i Maestri pretesero in un primo tempo di negarglielo, per le ripercussioni che la notizia della vittoria degli ebrei avrebbe potuto provocare fra le nazioni. Senonché – replicò la regina – gli eventi erano già registrati fra le cronache reali di Media e Persia (Meghillah 7a). Nell’introduzione al suo commento Ibn ‘Ezrà motiva l’assenza del Nome di D. nel testo della Meghillah proprio con il fatto che Mordekhay aveva preferito tenere un profilo basso, sapendo che la sua versione sarebbe finita in mano agli idolatri.
L’antisemitismo ci pone nella condizione psicologica di essere noi stessi a respingere l’idea di un futuro e, in definitiva, di affermare la nostra identità. Quando Mordekhay esercitò pressioni sulla cugina affinché si facesse ricevere dal re per perorare la causa del suo popolo, Ester indisse un digiuno di tre giorni. Se osserviamo da vicino la cronologia della Meghillah, scopriamo che coincidevano con i primi giorni di Pesach. Quell’anno gli Ebrei di Persia avrebbero rinunciato a fare il Seder. R. Elishà’ Gallico commenta il loro ragionamento: non ha senso ricordare il passato se non abbiamo un futuro davanti a noi. Ma c’è anche un’altra A, non meno rilevante.
La sfida dell’antisemitismo deve trasformarsi in rivalsa sull’assimilazione. Per apprezzare appieno questo significato occorre consultare il Midrash, che colloca la nota vicenda in una prospettiva più ampia. Il re Achashwerosh era lo stalliere dell’ultimo re di Babilonia, di cui aveva sposato la figlia, Washtì e aveva finito per ereditarne il potere. Prono a compiacere l’influente consorte, aveva rifiutato di acconsentire alla ricostruzione del Tempio di Gerusalemme distrutto dai Babilonesi. La Meghillah si apre con la descrizione del sontuoso banchetto offerto ai dignitari di tutte le nazioni, nel corso del quale Achashwerosh non si peritò di dar da bere agli ospiti nei recipienti sacri del Santuario e di apparire lui stesso vestito con gli abiti del Kohen Gadol. Quel che è peggio: gli Ebrei stessi aderirono di buon grado all’invito, nell’illusione di evitare danni peggiori in futuro.
D. reagì nascondendo il Suo volto (hester panim: cfr. Devarim 31, 18; Chaghigah 5b; Chullin 139b) o, più esattamente, celandosi dietro la regina Ester (Gaon di Vilna a Ester 1, 2). Mordekhay comprese il vero problema: non ci impegniamo a sufficienza per il nostro ebraismo. Reagì all’editto di Haman radunando i bambini ebrei in massa per insegnare loro Torah. Narra il Midrash che Haman camminava allegro con i suoi amici, allorché incontrò Mordekhay che conversava con tre di loro appena usciti da scuola. Mordekhay chiese a uno di essi: “Che versetto hai imparato oggi?” “Non aver paura di uno spavento improvviso” (Mishlè 3, 25). Il secondo bambino soggiunse di aver imparato: “Fate pure qualsiasi macchinazione, tanto sarà infranta (tufàr) perché D. è con noi” (Yesha’yahu 8, 10). E il terzo: “Io ci sarò fino alla vecchiaia” (ibid. 46, 4). Udendo questi versetti, Mordekhay fu contento. Haman allora gli domandò: “Perché tutta questa gioia?” “Sono buone notizie – disse Mordekhay -: mi insegnano che non devo avere paura di te e di tutto il male che ci vuoi fare” (Ester Rabbà 7, 17).
In alcuni riti questi tre versetti vengono pronunciati al termine di ogni Tefillah quotidiana. Mordekhay ci insegna a dare importanza allo studio della Torah. Assai più tardi, ancora influenti Maestri del Talmud, quando incontravano i piccoli allievi all’uscita dalle lezioni, erano soliti domandare loro il versetto che avevano imparato per trarne auspici per il resto della giornata (Chullin 95b, Ta’anit 9a). Un’altra versione del Midrash descrive Mordekhay impegnato a insegnare ai suoi piccoli allievi le regole della qemitzah, il gesto con cui il Kohen prelevava parte dell’impasto di farina da offrire sull’altare, benché ai tempi della Meghillah il Tempio non fosse ancora stato ricostruito. Il Talmud ci dice che possiamo compensare un precetto che non siamo in grado di osservare in pratica mediante lo studio (cfr. Wayqrà 7, 37; Menachot 110a), che ha un valore per se stesso. A Purim fu così data sanzione ufficiale dell’esistenza di una Torah Orale accanto a quella Scritta (Ester 9, 27; Shabbat 88b): la stessa Torah Orale che caratterizza ancora oggi il nostro comportamento e la nostra identità.
L’antisemitismo si contrasta solo combattendo l’assimilazione. Anzitutto perché l’assimilazione dipende essenzialmente da noi, mentre l’antisemitismo è un fenomeno esterno, irrazionale e pertanto difficile da gestire e prevedere per definizione. Ma soprattutto perché dar libero corso all’assimilazione fa il gioco degli stessi antisemiti che vogliono, in un modo o nell’altro, l’estinzione del nostro popolo e delle nostre Comunità. Mettere tutta la nostra attenzione nella lotta contro i mulini a vento dell’antisemitismo, incuranti dell’educazione ebraica dei nostri figli che così moriranno nel proprio letto, anziché in un lager, è un pensiero egoista e miope: l’ennesima illusione di evitare danni peggiori in futuro.
Un’ultima osservazione sull’etimologia della parola pur (“sorte”). Mentre Ibn ’Ezrà (a Ester 3, 7) la considera una parola persiana (lingua indoeuropea, da confrontarsi presumibilmente con il latino: for-s, for-tuna), R. David Qimchi e altri grammatici si sforzano di trovarvi una radice semitica e la identificano nella stessa del verbo già visto tufar (“sarà infranta”; cfr. Sefer ha-Shorashim s.v.). Questo medesimo verbo è adoperato nella Torah a proposito della hafarat nedarim. Se la moglie fa il voto di crearsi determinate proibizioni che possono avere una ricaduta sulla vita coniugale, entro il giorno stesso il marito ha il potere di “infrangere” e annullare il voto fatto (Bemidbar 30, 13). Se la Comunità d’Israel assume comportamenti tali da pregiudicare la sua relazione con lo Sposo Celeste, Questi ha la facoltà di revocarle e capovolgerle (nahafokh hu: Ester 9, 1). Dobbiamo solo renderci disponibili prima che trascorra il giorno. Questo è il senso di Purim. Chag Sameach.

Rav Alberto Moshe Somekh