Dante e l’antisemitismo
Nel dare inizio a queste brevi riflessioni su “Dante gli ebrei”, abbiano chiarito, lo scorso mercoledì 5 maggio, che, con tale locuzione, si può fare riferimento a tre cose distinte: innanzitutto, al modo in cui il poeta è stato e viene considerato nell’ambito della cultura ebraica, nei diversi contesti storici e culturali; poi, alla specifica collocazione che l’ebraismo e il popolo ebraico assumono, nel generale quadro teologico della Commedia; infine, al modo in cui i versi di Dante sono stati utilizzati, dopo il suo tempo, e indipendentemente dalla sua volontà e dalle sue intenzioni, nella costruzione dell’immagine degli ebrei e dell’ebraismo, in modo più o meno ostile, benevolo o indifferente.
Dopo avere dedicato qualche cenno (nei pezzi del 5, 12, 19, 26 maggio e del 2 giugno) alla prima questione, e dopo avere trattato (il 9, 16, 23 e 30 giugno) del problema dell’eventuale influenza esercitata sull’Alighieri dal poeta Immanuel Romano e dal mosaicista Pantaleone, veniamo quindi ad affrontare il secondo e il terzo punto, ossia quello dei versi dedicati nella Commedia al popolo d’Israele, nel suo complesso (e alla sua funzione storica e metastorica, nel generale quadro del divino progetto salvifico), o ad alcuni dei suoi singoli esponenti, e del modo in cui il pensiero di Dante, in modo più o meno fedele o distorto, è stato utilizzato.
Tali questioni sono direttamente collegate al più ampio problema del rapporto del poeta con la concezione degli ebrei prevalente nel Medio Evo, e alla domanda se la visione dantesca possa essere inscritta all’interno della generale dottrina teologica “De Iudaeis” consolidata nel tempo e negli ambienti in cui egli visse, o se la sua personale teoria si distacchi invece, in qualche misura, da tale costruzione ideologica. Sarebbe molto sbagliato e fuorviante, a mio avviso, ridurre tale vasto argomento al solo problema del rapporto tra Dante e l’antisemitismo medievale, o, ancor più, alla semplicistica e antistorica domanda se Dante possa essere considerato, personalmente, antisemita.
A tale domanda potrei tentare di fornire una risposta tra diverse ‘puntate’, dopo avere preso in esame i diversi passi della Commedia in cui si tratta di ebrei e di Israele, ma preferisco invece rispondere subito, con un secco ‘no’: Dante non può essere considerato personalmente antisemita, anche se, a livello dottrinale, è pienamente inserito all’interno di una teologia che – almeno secondo la nostra concezione contemporanea, maturata dopo i rivolgimenti dell’Illuminismo e dell’Ottocento – ha certamente, tra i suoi basilari fondamenti, non solo l’irreversibile distacco tra il Verus e il falsus Israel, ma anche la definitiva e inespiabile condanna del popolo ‘deicida’, meritevole di avere trasmesso le Sacre Scritture e la voce del Dio unico, e di avere generato il Messia, ma anche eternamente colpevole per non averlo riconosciuto come tale, e per averlo anzi – accecato dalla propria superbia – messo a morte, autocondannandosi così a una eterna perdizione (“il suo sangue ricada su noi e sui nostri figli”: Matth. 27.25). Un giudizio di pietra, che è creato e condiviso, com’è noto, da molti tra i più importanti Padri della Chiesa (da Tertulliano ad Ambrogio, da Giovanni Crisostomo ad Agostino e a tanti altri), e che la Chiesa solo in tempi recenti, com’è noto, attraverso un difficile e non rettilineo percorso di rimeditazione e reinterpretazione, sta cercando, in qualche modo, di correggere.
Diciamo anche subito che, nel modo in cui Dante tratta l’ebraismo e il popolo ebraico, sono certamente presenti – come cercheremo di illustrare – non pochi tratti di originalità. E tuttavia, non si può dire che il poeta segni, in materia, delle vere e proprie svolte (diversamente, come abbiamo visto, da quanto ha fatto attraverso la mirabile ‘creazione’ del Purgatorio, che avrebbe tanto profondamente inciso sull’immaginario popolare e sulla storia della Chiesa). Egli non mostra di volere ribaltare una dottrina a lui pervenuta, attraverso secoli di catechesi cristiana, anche se non si limita a riceverla e a riproporla pedissequamente. Non pare, neanche su questo piano, volere superare gli schemi ideologici di quel Medio Evo a cui egli integralmente apparteneva (“Dante è un poeta medievale. – scrisse il grande umanista Giuseppe Toffanin, amatissimo maestro di mio padre Bruno – E non se n’esce”), ma li espone in modi in parte nuovi e diversi.
Il fatto che Dante resti una figura integralmente medievale autorizza forse a dire che, dato che il Medio Evo è stato fortemente intriso di antisemitismo, anche Dante è stato antisemita?
La mia risposta, ripeto, è no, così come ritengo semplicistico etichettare come antisemita l’intero Medio Evo. Ma, per potere meglio argomentare queste mie affermazioni, devo spendere qualche parola sulla subdola e ambigua natura dell’antisemitismo, e soprattutto sulla sua articolazione in due manifestazioni nettamente distinte, che chiamo antisemitismo ‘attivo’ (o ‘caldo’) e ‘passivo’ (o ‘freddo’). Un punto che cercherò di chiarire la settimana prossima.
Francesco Lucrezi
(7 luglio 2021)